Non è un intervento di miglioramento sismico di un organismo edilizio quello che viene effettuato solo su una sua porzione, dall’alto in basso. Al contrario, è un intervento che danneggia fortemente l’organismo edilizio nel suo complesso ed in particolare le parti rimanenti sulle quali non si interviene.
Facciamo un esempio concreto, comprensibile anche ai non tecnici. Un organismo umano, una persona con entrambe le ginocchia malandate, a cui occorre un intervento per consentirgli di vivere senza problemi di dolori e di movimento, ma che per ristrettezze economiche si decide ad intervenire, temporaneamente, su uno solo dei due ginocchi.
La persona operata ovviamente continua a camminare, danneggiando però altre parti del corpo (l’anca, la spina dorsale, l’altro ginocchio, ecc.) che si trovano dopo l’intervento in condizioni di sovraccarico, costrette a sopportare lavoro aggiuntivo e diverso da quello che solitamente bene o male facevano. Figurarsi poi che succede se la persona subisce accidentalmente un colpo improvviso…
Durante il sisma, il corpo di fabbrica strutturalmente più “forte” (in quanto ha subito un miglioramento sismico), richiama su di se maggiori forze sismiche rispetto a prima che fosse “migliorato sismicamente”, forze alle quali le parti strutturali su cui non si è intervenuti non sono in grado di far fronte, parti che in genere sono legate ad esso (se no, non sarebbe un organismo edilizio ad hoc). Tali parti non ce la fanno e quindi crollano.
Non per niente la normativa sismica vigente in Italia, relativamente all’intervento di “miglioramento sismico” prescrive che gli interventi devono essere in genere rivolti a singole parti del manufatto, contenendone il più possibile l’estensione ed il numero, e comunque evitando di alterare in modo significativo l’originale distribuzione delle rigidezze negli elementi. L’esecuzione di interventi su porzioni limitate dell’edificio va comunque valutata e giustificata nel quadro di una indispensabile visione d’insieme, portando in conto gli effetti della variazione di rigidezza e resistenza degli elementi.
Di questa alternativa all’intervento di “adeguamento sismico” degli edifici esistenti si iniziò a parlare dopo il terremoto del 1980 (quasi quarant’anni fa!), sia per la mancanza di soldi e di tempo, sia e sopratutto per evitare interventi troppo invasivi sugli edifici storici di grande valore architettonico, che con interventi pesanti sulle loro strutture potevano subire alterazioni considerevoli alle opere di rifinitura (affreschi, rivestimenti, ecc.). Mi ricordo che in una conferenza tenuta dal Prof. Carlo Gavarini a Firenze (responsabile per le norme sismiche in quel periodo tragico) a Palazzo Strozzi, abbiamo posto il problema della confusione che poteva derivare dalla possibilità di scelta tra due interventi sismici, quello di adeguamento e quello di semplice miglioramento. Fu messo allora in chiaro che con il miglioramento sismico si interviene sulle strutture rafforzandole, ma senza alterare (modificare) significativamente il comportamento statico e sismico dell’intero complesso edilizio e strutturale. Il problema è che quando si interviene sui materiali degli elementi strutturali portanti migliorando la loro qualità, si modifica anche il loro modulo elastico e quindi anche le loro rigidezze (assiali, taglianti, flessionali); e quando si modificano le dimensioni dei singoli elementi strutturali per migliorare le loro capacità portanti, si modificano anche le loro rigidezze strutturali.
In altri termini, modificando materiali o dimensioni degli elementi strutturali portanti, modifichiamo anche le rigidezze, e quindi la risposta sismica di un edificio.
Una riflessione è inevitabile: in quarant’anni, abbiamo preparato nelle università e nei corsi specialistici post laurea, diverse generazioni di tecnici, quelli che hanno operato nei luoghi terremotati, tecnici e amministratori che, a regola, erano capaci di intervenire in condizioni post-terremoto.
Cosa allora non ha funzionato? Neppure sul fronte dei Sistemi di Garanzia della Qualità, che a regola dovevano garantire a chi di dovere (committenza, amministratori, controllori di ogni settore) che tutto fosse fatto in qualità, come richiesto dalle norme e dalla committenza, anche prendendo in considerazione l'”errore umano” e la motivazione umana a svolgere correttamente un dato intervento richiesto, e persino l’ignoranza umana.
Non so darmi una riposta, ma è un’autocritica sofferta che mi faccio in questi giorni.
Prof. Arch. Nina Avramidou